giovedì 15 novembre 2012

RATING DI LEGALITA’: ANTITRUST APPROVA REGOLAMENTO, MECCANISMO OPERATIVO ENTRO FINE ANNO



Sarà operativo entro fine anno il rating di legalità delle imprese: l’Antitrust, nella riunione del 14 novembre 2012, ha infatti varato il regolamento che stabilisce criteri e modalità di attribuzione dei punteggi.
Il regolamento, che ha ricevuto il parere favorevole dei ministeri dell’Interno e della Giustizia, dovrà essere ora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale ed entrerà in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione.

mercoledì 14 novembre 2012

Testo della Legge Anticorruzione, che entrerà in vigore il 28 novembre 2012


LEGGE 6 novembre 2012, n. 190. Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione.

(GU n. 265 del 13-11-2012 ). In vigore dal28/11/2012

domenica 28 ottobre 2012

3. A COSA SERVE TUTTO QUESTO?


Il sistema di gestione per i partiti politici è stato esposto nel capitolo 2 in termini molto generali, facendo soprattutto riferimento ai requisiti richiesti dalla norma ISO 31000 sul Risk Management. Nei prossimi paragrafi, proverò a “calare” tale sistema entro alcuni temi e alcune problematiche concrete.

2. SISTEMI DI GESTIONE DEI PARTITI POLITICI


2.1 Oggetto dei sistemi di gestione politica
I sistemi di gestione sono “architetture teoriche” che permettono ad una organizzazione di progettare organigrammi, responsabilità, risorse (umane, tecnologiche, informative) e procedure, al fine di controllare alcuni aspetti associati alla struttura organizzativa e alla gestione dei processi aziendali.
I sistemi di gestione si differenziano sulla base al loro oggetto, vale a dire in base a ciò che aiutano a gestire. Esistono sistemi di gestione della Qualità, sistemi di gestione Ambientale, sistemi per la gestione della Sicurezza sul Lavoro, sistemi per la gestione della responsabilità sociale. Questi sistemi possono avere degli standard internazionali di riferimento, che definiscono i requisiti minimi, per implementare un sistema di gestione efficace, efficiente e in continuo miglioramento. ISO 9001 (Qualità), ISO 14001 (Ambiente), OHSAS 18001 e UNI-INAIL (Sicurezza sul lavoro), SA 8000 e ISO 26000 (Responsabilità Sociale d’Impresa) sono tutti esempi di standard internazionali associati a specifici sistemi di gestione.
Per quanto riguarda la prevenzione dei reati, sono da segnalare i Modello di Organizzazione e Gestione previsti dal d.lgs. 231/2001 (MOG 231), per la gestione della responsabilità amministrativa dipendente da reato. Si tratta di sistemi di gestione che non hanno uno standard internazionale, ma i cui requisiti di efficacia sono stabiliti dalla normativa, dalle sentenze dei tribunali, dalle Linee Guida di Confindustria e da altre linee guida di associazioni di categoria approvate dal Ministero della Giustizia.
A questo punto, diventa interessante capire quali requisiti debbano avere i sistemi di gestione politica.

1. RUOLO E CRISI DEI PARTITI POLITICI


1.1 Obiettivi, macro-tipologie di processo, monopoli e funzione storica delle organizzazioni politiche

I partiti politici esistono per conseguire 2 obiettivi, fra loro correlati:
  • la creazione del consenso
  • il governo della Cosa Pubblica
La creazione del consenso si concretizza attraverso una serie di processi, interni ai partiti, finalizzati alla produzione di idee, programmi, e progetti, alla rilevazione dei bisogni della società civile, al dialogo con altre realtà associative (ad esempio sindacati, associazioni di imprenditori, ecc …) al tesseramento, che consente ai partiti di portare al proprio interno rappresentanti del contesto sociale e produttivo. Tutti questi processi sono finalizzati ad acquistare credibilità, per ottenere la fiducia degli elettori.
Il governo della cosa pubblica, invece, è esercitato dai singoli rappresentati dei partiti (gli eletti) all’interno delle istituzioni. Attraverso i propri eletti, i partiti politici esercitano una funzione pubblica, che si concretizza nella conduzione di processi di scelta, controllo, indirizzo sull’operato della componente burocratico-amministrativa dello Stato, delle Regioni, dei Comuni. La funzione di governo dei partiti si estende anche ad eventuali altri Enti non territoriali di rilevanza pubblica o a Società a partecipazione pubblica.

mercoledì 17 ottobre 2012

DDL Anticorruzione. Il Senato approva il maxiemendamento al disegno di legge


Con 228 voti favorevoli, 33 contrari e 2 astenuti, il Senato ha accordato la fiducia al Governo Monti, approvando il maxiemendamento 1.900 (testo corretto) sostitutivo degli articoli da 1 a 26 del disegno di legge n. 2156-Brecante "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione" (già approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati). 

L'Assemblea ha quindi approvato il testo del ddl nel complesso, comprensivo dell'articolo 27, che non è stato modificato dall'altro ramo del Parlamento, sulla clausola d'invarianza finanziaria. Il testo torna dunque alla Camera.

Sul versante della prevenzione, il ddl anticorruzione detta norme sull'Autorità e sul piano nazionale anticorruzione; conferisce deleghe al Governo in materia di trasparenza amministrativa, incompatibilità degli incarichi dirigenziali, incandidabilità conseguente a sentenze definitive di condanna; interviene sul collocamento fuori ruolo dei magistrati. Sul versante repressivo, il ddl prevede diverse modifiche al codice penale: aumenta il minimo sanzionatorio della reclusione per il reato di peculato; ridefinisce il reato di concussione, introducendo la fattispecie di concussione per induzione e limitando la concussione per costrizione al solo pubblico ufficiale; distingue la corruzione propria, relativa al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, dalla corruzione impropria; punisce la corruzione tra privati con la reclusione da uno a tre anni; introduce la nuova fattispecie delittuosa del traffico di influenze illecite, prevedendo una pena da uno a tre anni di reclusione.
Nella mattinata, conclusa la discussione generale con gli interventi dei sen. Casson (PD), Mugnai e Caliendo (PdL), dopo le repliche dei relatori, sen. Ceccanti (PD) e Balboni (PdL), hanno preso la parola i rappresentanti del Governo.
Il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Patroni Griffi si è soffermato sulle politiche di prevenzione della corruzione, incentrate sui concetti di valutazione e gestione del rischio, e ha fornito precisazioni sul piano nazionale anticorruzione, sottolineando che le amministrazioni comunali saranno coadiuvate dalle prefetture. L'affidamento in appalto dei lavori e l'acquisizione di beni e servizi nei settori della sanità, dell'urbanistica e dell'edilizia sono le aree più esposte alla corruzione. Ogni amministrazione sarà comunque tenuta a fare una valutazione specifica dei rischi attraverso la mappatura dei procedimenti e ad adottare misure organizzative conseguenti. Ricordando che la corruzione, oltre ad avere costi sociali ed etici, altera il sistema della concorrenza, determina oneri impropri per le imprese e scoraggia gli investimenti, il Ministro ha accennato infine all'opportunità di liberalizzazioni e di misure per separare l'amministrazione dalla politica.
La Ministro della giustizia Severino ha ricordato che il complesso iter del provvedimento è iniziato nel 2010 con il precedente Governo e ha sottolineato i meriti del ddl che tipizza meglio alcune fattispecie di reato, distingue la corruzione dalla concussione, garantisce equilibrio tra le norme penali. Ha precisato quindi che i temi del falso in bilancio, dell'autoriciclaggio, della prescrizione non attengono al cuore del provvedimento e richiedono iniziative legislative specifiche, anche per evitare rallentamenti. Ha sollecitato infine un esame rapido presso la Camera.
La seduta è stata sospesa dopo che il Governo ha posto la fiducia sull'approvazione dell'emendamento 1.900. Alla ripresa dei lavori nel pomeriggio, il Presidente della Commissione bilancio, sen. Azzollini (PdL), ha riferito sui profili di copertura del maxiemendamento, asseverandone la regolarità dopo che la Presidenza ha fornito chiarimenti procedurali. Il sen. Calderoli (LNP) ha invitato il Governo a rispettare le prescrizioni della legge di contabilità. Alla discussione sulla questione di fiducia hanno offerto contributi i sen. Divina, Mazzatorta (LNP), Pardi (IdV), Spadoni Urbani, Caliendo, Caruso (PdL), Germontani (Terzo Polo), Agostini (PD). Le dichiarazioni di voto, riprese dalla diretta televisiva, sono state svolte dai sen. Li Gotti (IdV), Menardi (CN), Astore (Misto), Bruno (Terzo Polo), Serra (UDC), Mura (LNP), Finocchiaro (PD), Gasparri (PdL).
Hanno rinnovato la fiducia al Governo tutti i Gruppi, ad eccezione dell'Italia dei Valori e della Lega Nord, che ha però annunciato voto favorevole al testo complessivo del ddl. L'Italia dei Valori ha posto l'accento sui paradossi e sui limiti di un provvedimento che rinuncia ad affrontare i temi del falso in bilancio, del voto di scambio politico-mafioso, dell'autoriciclaggio e dell'allungamento dei termini di prescrizione. L'UDC ha criticato la pretesa di condizionare il voto favorevole a un ampliamento del disegno di legge. Coesione Nazionale ha evidenziato la necessità di snellire la burocrazia e di semplificare le procedure amministrative. Il Terzo Polo ha richiamato gli impegni assunti dall'Italia in tema di risanamento, lotta alla corruzione, rilancio della competitività. Il Gruppo Misto ha invitato la politica a dare ai cittadini un segnale positivo rispetto alla capacità di autoriformarsi. Ritenendo che l'approvazione del ddl anticorruzione sia un atto dovuto nei confronti del Paese, il PD ha ricordato l'equilibrio tra la parte preventiva e la parte repressiva. Il PdL ha invece posto l'accento sulle novità in tema di prevenzione, le sole che possono garantire risultati concreti, e ha rivendicato il contributo offerto dal Gruppo alla migliore definizione dei reati di traffico di influenze illecite e corruzione tra privati. In dissenso dal Gruppo il sen. Giovanardi (PdL) non ha votato la fiducia.
Le dichiarazioni di voto finali a favore del ddl sono state svolte dai sen. Menardi (CN), Vizzini (UDC) e Mura (LNP). Il sen. Li Gotti (IdV) ha invece dichiarato voto contrario, criticando la previsione d'invarianza finanziaria.
Nel corso della seduta la Presidenza ha comunicato il nuovo calendario dei lavori fino al 25 ottobre: nella seduta di martedì prossimo, ove concluso dalla Commissione competente, inizierà l'esame del ddl sulla diffamazione a mezzo stampa.

FONTE: SENATO DELLA REPUBBLICA - seduta 815 antimeridiana - comunicato di fine seduta.

Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)
http://it.linkedin.com/in/andreaferrarini
cell. 3472728727 - andreaferrarini@inwind.it

mercoledì 29 agosto 2012

D.Lgs 109/2012: da agosto nuove sanzioni per le imprese che impiegano lavoratori irregolari.

Il D. Lgs. 16/7/2012 n. 109, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (n.172) il 26/7/2012 , ha introdotto, all’interno del D. Lgs. 231/01, l’art. 25 duodecies in tema di “impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare“. Il nuovo articolo prevede una sanzione pecuniaria variabile (che può arrivare ad un massimo di 150.000 Euro), a carico delle imprese che occupano alle proprie dipendenze dei lavoratori stranieri "irregolari", cioè privi del permesso di soggiorno, o il cui permesso sia scaduto (e del quale non sia stato richiesto nei termini di legge il rinnovo), revocato o annullato.

Ma cos'è, esattamente, il d.lgs 231/2001?

Il D.Lgs 231/2001 è la norma che definisce la responsabilità delle imprese per i reati commessi, nel proprio interesse e a proprio vantaggio, dai loro rappresentanti, amministratori, dirigenti o dipendenti. Si tratta di una responsabilità particolare, specifica della persona giuridica (società), e distinta dalla responsabilità penale delle persone fisiche. Per questo motivo, ci si riferisce ad essa come Responsabilità Amministrativa dipendente da reato.
Sulla base del decreto, le imprese possono essere sanzionate (in modo anche molto pesante), per non aver impedito la commissione dei reati. Infatti, l'impresa è esentata dalla propria responsabilità (che quindi ricade esclusivamente sulle persone fisiche che hanno commesso l'illecito), nel caso in cui abbia adottato ed efficacemente attuato prima del verificasi del reato modelli organizzativi e di gestione (Modelli 231), finalizzati alla prevenzione delle condotte illecite.

Affinché il Modello 231 abbia valore esimente, l'azienda deve anche affidare ad un Organismo di Vigilanza (OdV), cioè ad una funzione aziendale dotata di autonomi poteri di iniziativa e controllo, il compito di verificare la corretta attuazione e l'efficacia nel tempo del Modello 231. Nelle aziende di piccole dimensioni l'OdV può coincidere con l'organo dirigente dell'azienda. Invece, nelle società di capitali, il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza o il comitato per il controllo della gestione possono svolgere la funzione di OdV. Tuttavia, le aziende possono, per tutelarsi meglio, affidare le funzioni di OdV a soggetti esterni alla azienda, che non siano coinvolti in processi a rischio di reato.

La responsabilità amministrativa delle imprese si concretizza solo in presenza di specifici reati, elencati negli articolo 24 e 25 del d.lgs. 231/2001. Negli anni l'elenco dei reati presupposto della responsabilità amministrativa delle imprese si è via via allungato. Nel 2011, per esempio, la responsabilità delle imprese è stata estesa ai reati ambientali e, infine, dal 9 agosto 2012, all'impiego di lavoratori stranieri "irregolari". In questo ultimo caso, le sanzioni per l'azienda (che si sommano a quelle previste per il datore di lavoro in quanto persona fisica), scattano nei seguenti casi:

  • se i lavoratori occupati sono numero superiore a tre;
  • se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa
  • se i lavoratori occupati sono stati esposti a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro
Alcune tipologie di impresa sono particolarmente esposte al rischio di impiegare lavoratori stranieri irregolari: si tratta, ad esempio, delle imprese edili, delle imprese che forniscono servizi di logistica o di pulizia civile e industriale; e delle imprese agricole. Tali imprese dovrebbero, per evitare il rischio di essere sanzionate, dotarsi di un Modello 231 efficace, ed attuarlo efficacemente, per prevenire il rischio che siano commessi degli illeciti nell'interessi dell'azienda.


Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)
http://it.linkedin.com/in/andreaferrarini
cell. 3472728727 - andreaferrarini@inwind.it




domenica 24 giugno 2012

Promuovere la trasparenza per prevenire la corruzione


Il sistema di prevenzione del rischio di illegalità nel disegno di legge anticorruzione.

La presente analisi considera gli articoli 1, 4 e 5 del disegno di legge anticorruzione approvato alla camera dei deputati il 14 giugno 2012.

In tali articoli si delinea la  possibile futura struttura per la gestione del rischio di corruzione ed illegalità nelle pubbliche amministrazioni, vale a dire l’insieme di responsabilità, poteri e risorse (Piani di gestione del rischio, sistemi di sanzione, codici di comportamento, flussi informativi), necessari per definire, attuare, monitorare, rivedere e migliorare nel tempo le attività di prevenzione della corruzione e dell’illegalità nel settore pubblico. 

1. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (art. 1, commi 1-3). L’Autorità Nazionale Anticorruzione è individuata in un organismo già esistente: la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (art.13 d.lgs. 150/2009), nota anche come CIVIT. Già il comma 8 dell’art. 13 del d.lgs. 150/09 prevedeva l’istituzione, presso la Commissione, di una “Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche con la funzione di favorire, all’interno della amministrazioni pubbliche, la diffusione della legalità e della trasparenza e sviluppare interventi a favore della cultura dell’integrità”, incaricata di emettere di Linee Guida per la redazione dei Programmi triennali per l’integrità e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni (art 11, comma 2, d.lgs. 150/2009) e di vigilare sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza. Quindi, l’idea di fondo è che la prevenzione della corruzione passi, necessariamente, attraverso interventi in campo etico ed organizzativo, finalizzati a promuovere una cultura della trasparenza e dell’integrità. Secondo questa visione, la corruzione può essere vista come “espressione patologica” di una cultura dell’impresa pubblica poco orientata all’etica e alla trasparenza.
Alla CIVIT (nella sua funzione di Autorità Anticorruzione) sono assegnate numerose funzioni (art. 1, comma 2):
  • Collaborare  con gli organismi anti corruzione regionali, nazionali ed internazionali, e
  • Approvare il Piano Nazionale Anticorruzione, predisposto dal Dipartimento della Funzione Pubblica.
  • Vigilare  sull’effettiva applicazione delle misure anti corruzione e di trasparenza nelle pubbliche amministrazioni italiane, anche con interventi di tipo ispettivo (art. 1, comma 3).
  • Analizzare le cause e i fattori della corruzione ed individuare gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il contrasto.
  • Riferire annualmente al Parlamento circa l’efficacia delle disposizioni di legge e degli interventi in materia di contrasto alla corruzione e all’illegalità nella pubblica amministrazione.
  • Esprimere pareri facoltativi sulla conformità di atti e comportamenti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici di comportamento, ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro pubblico;
  • Esprime pareri facoltativi in materia di autorizzazioni allo svolgimento di incarichi esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
Quindi, LA CIVIT si trova ad essere il principale perno su cui far gravitare le alcune delle attività connesse alla gestione del rischio-corruzione nel settore pubblico: valutazione dei fattori di rischio, approvazione degli indirizzi generali per il trattamento del rischio (Piano Nazionale Anticorruzione), monitoraggio e supporto per la corretta applicazione dei piani per la gestione del rischio-corruzione nelle singole amministrazioni, rapporti con gli stakeholders interni (pubbliche amministrazioni, parlamento, ministero della funzione pubblica). In generale, il modello di gestione del rischio è fortemente centralizzato ed individua (già in via preliminare) due fonti di rischio, associabili all’emergere di episodi di corruzione:
  • i comportamenti e gli atti dei funzionari pubblici. Queste fonti di rischio non possono essere rimosse (perché sono parte della vita organizzativa degli enti pubblici). La CIVIT, però può intervenire per valutare l’aderenza di atti e comportamenti al complesso delle regole (codici di comportamento e contratti di lavoro) che governa il pubblico impiego, per gestire fin da subito condotte potenzialmente illecite. (trattamento della fonte di rischio)   
  • lo svolgimento di incarichi esterni da parte di dirigenti amministrativi dello stato e degli enti pubblici nazionali, che rappresentano un possibile rischio, nella misura in cui, attraverso tali incarichi, il pubblico ufficiale si trova coinvolto negli interessi di stakeholders esterni alla pubblica amministrazione, che potrebbe favorire in modo illecito. Tali fonti di rischio possono essere semplicemente rimosse, non autorizzando l’incarico esterno.   
2. Il ruolo del Dipartimento della Funzione Pubblica (art. 1, commi 4). Il disegno di legge prevede (ai commi 4 e 5 dell’articolo 1), che il Dipartimento della Funzione Pubblica predisponga un Piano Nazionale Anticorruzione, per coordinare l'attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione. Il Piano Nazionale Anticorruzione deve essere approvato dalla CIVIT.  Inoltre, il Dipartimento della funzione pubblica promuove e definisce:
  • Le norme e le metodologie comuni per la prevenzione della corruzione
  • Le informazioni e i dati occorrenti per la prevenzione della corruzione e dell’illegalità, elaborando anche modelli standard, che consentano il trattamento informatico dei dati;
  • I criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti al rischio di corruzione
  • Le misure per scongiurare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni.
Per implementare un efficace sistema di prevenzione del rischio di reato è fondamentale definire correttamente le responsabilità e i poteri dei vari soggetti in esso coinvolti. E in questo senso il disegno di legge sembra essere efficace, perché assegna alla CIVIT un ruolo attivo nella regia del sistema di prevenzione della corruzione (l’autorità ha poteri di vigilanza, riferisce in parlamento, esprime pareri, collabora con gli organi internazionali, analizza i fattori di rischio associati alla corruzione e all’illegalità, individua modalità di trattamento del rischio); mentre assegna al Dipartimento della Funzione Pubblica la responsabilità di definire  le risorse (norme, metodologie, modelli standard, criteri e soluzioni gestionali) su cui si la CIVIT imposta la propria attività.

3. I Piani Anticorruzione nelle Pubbliche Amministrazioni (art. 1, comma 5 e 5 bis e art. 8 ).  Il disegno di legge prevede che tutte le Pubbliche Amministrazioni Centrali definiscano e trasmettano al Dipartimento della funzione un proprio Piano di Prevenzione della Corruzione. I Piani devo contenere “una valutazione del diverso livello di esposizione al rischio corruzione degli uffici e gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio”, nonché “procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari”.  
Il successivo articolo 8 del disegno di legge chiarisce che l’obbligo di predisporre e attuare i Piani di Prevenzione della corruzione (stabilito per Pubbliche Amministrazioni Centrali) è esteso a tutti i soggetti pubblici che rientrano nell’ambito di applicazione del Testo Unico del Pubblico Impiego (art. 1, comma 2 del d.lgs. 165/2001). L’estensione dei Piani anticorruzione alle Regioni, agli Enti Locali, agli Enti Pubblici e ai soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo, dovrà avvenire, entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge, attraverso intese in sede di Conferenza Unificata.
Si tratta di una platea vastissima, che coinvolge non solo l’amministrazione statale, regionale e locale, ma anche gli istituti Scolastici, le Università, le Comunità Montane, i Consorzi, gli Istituti Autonomi Case Popolari, le Camere di Commercio, tutti gli Enti Pubblici non Economici, le ASL gli altri enti del Servizio Sanitario Nazionale. Questi enti erano stati, in tutto o in parte, esclusi dal campo di applicazione del d.lgs. 231/2001 (che, come noto, non si applica allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non  economici, nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale) e quindi la legge anticorruzione, così come è stata licenziata dalla Camera, si configura come il Decreto 231 del settore pubblico.
I Piani per la Prevenzione della Corruzione, adottati dalle singole amministrazioni, devono essere formulati e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano Nazionale approvato dalla CIVIT e i Prefetti avranno il compito di fornire, su richiesta, supporto tecnico e informativo agli Enti Locali, anche al fine di assicurare l’aderenza dei Piani  agli indirizzi definiti a livello nazionale (art 1, comma 5-bis).

4. Caratteristiche dei Piani per la Prevenzione della Corruzione nella pubblica amministrazione ( art. 1, commi 5 ter – 5 quinquies) . Le somiglianze con il d.lgs 231/2001 si fanno evidenti quando si passi ad analizzare i requisiti e le modalità di attuazione dei Piani per la Prevenzione della Corruzione nelle Pubbliche Amministrazioni. Tali Piani, infatti, assomigliano molto (per il loro contenuto e per le responsabilità che mettono in campo) ai modelli organizzazione e di gestione del d.lgs. 231/2001.
L’Organo di indirizzo politico dell’Amministrazione (p. es. nei Comuni la Giunta), entro il 31 gennaio di ogni anno, deve adottare il proprio Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione. Il Piano deve essere predisposto da un Dirigente Responsabile della Prevenzione della Corruzione, esplicitamente individuato tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio presso l’Ente. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato,di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione. Il Piano adottato deve essere trasmesso al Dipartimento della funzione pubblica. Il “Dirigente Anticorruzione” deve anche, annualmente, definire procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. Poiché i Piani, triennali  devono essere adottati ogni anno, il disegno di legge sembra implicitamente richiedere alle amministrazioni di effettuare una revisione annuale del Piano in essere, attività che, se correttamente attuata, potrebbe effettivamente garantire alle amministrazioni il miglioramento continuo, nel tempo, dei propri presidi anticorruzione.
La mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti costituiscono elementi di valutazione della responsabilità dirigenziale.
I Piani per la Prevenzione della corruzione (al pari dei Modelli 231) devono rispondere a precisi requisiti, definiti nell’articolo 1 comma 5-quinquies del disegno di legge. Essi devono
  • individuare le attività nell'ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione, anche raccogliendo le proposte dei dirigenti, elaborate nell'esercizio delle funzioni di loro competenza
  •  prevedere, per le attività individuate a rischio corruzione, meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio corruzione
  • prevedere, con particolare riguardo alle attività a rischio di corruzione, obblighi di informazione nei confronti del Dirigente Anticorruzione
  • monitorare il rispetto dei termini, previsti dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti;
  • monitorare i rapporti tra l'amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, (con particolare attenzione alle relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e gli amministratori, i dirigenti e i dipendenti dell'amministrazione);
  • individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge.
 L’ultimo requisito dei Piani sottolinea, ancora una volta, la proposta di fondo dell’intervento normativo: la prevenzione della corruzione passa, necessariamente, attraverso la promozione della trasparenza, intesa (ai sensi dell’art. 11, comma 1 del d.lgs. 150/09) come accessibilità totale delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità.
Si tratta di una nozione di trasparenza molto forte (che va ben oltre il semplice diritto all’accesso agli atti amministrativi), che ha un fondamento costituzionale, nella misura in cui costituisce un livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
m) , della Costituzione.
Gli articoli 2, 2-bis e 3 e parte dell’ articolo 4 del disegno di legge anticorruzione sono interamente dedicati alla trasparenza nei vari ambiti dell’attività amministrativa (utilizzo delle risorse pubbliche, tempistiche dei procedimenti, appalti, concessione di contributi, concorsi, controversie, accesso agli atti, attribuzione degli incarichi dirigenziali, autorizzazione ad incarichi esterni). Per ragioni di spazio, tali articoli non saranno trattati nella presente analisi.

5. Codici di comportamento (art. 4, comma 2-bis). Il disegno di legge definisce il nuovo Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici, riscrivendo in toto l’articolo 54 del Testo Unico del Pubblico Impiego. Il Codice che dovrà essere definito dal Governo entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge anticorruzione.   Il codice di comportamento avrà il fine di assicurare la qualità dei servizi, prevenire  fenomeni di corruzione, promuovere il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse pubblico.
Il codice dovrà contiene una specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione alle funzioni attribuite e che comunque preveda il divieto per tutti i dipendenti pubblici di chiedere o accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l'espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d'uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia. ll Codice di Comportamento, approvato con decreto del Presidente della Repubblica, dovrà essere consegnato al dipendente, che lo sottoscriverà all’atto dell’assunzione.
Il nuovo codice di comportamento è adottato dal Governo, e non più, come in precedenza, dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Inoltre, il nuovo codice sarà immediatamente applicabile (in precedenza, doveva essere recepito nei contratti di lavoro),  anche se ciascuna amministrazione sarà chiamata a definire un proprio codice, che integra quello nazionale, con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio Organismo indipendente di valutazione e secondo criteri, linee guida e modelli definiti dalla Civit.

6. Obblighi e sanzioni a carico del Dirigente Responsabile della Prevenzione della Corruzione dei dipendenti (art.1, commi 5 sexies – 5 decies).  Il disegno di legge assegna al Dirigente Anticorruzione anche la responsabilità di verificare l’idoneità e l'efficace attuazione del Piano per la Prevenzione della Corruzione, proponendo delle modifiche, in caso di gravi violazioni o modifiche nell’organizzazione o nei processi dell’ amministrazione. Inoltre, deve verificare l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici maggiormente esposti al rischio di corruzione ed individuare il personale a rischio, da coinvolgere in percorsi di formazione sui temi dell’etica e della legalità che, per le amministrazioni statali, saranno organizzati dalla Scuola Superiore per la Pubblica Amministrazione.
In caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il Dirigente Anticorruzione risponde ai sensi dell’ art. 21 del Testo Unico del Pubblico Impiego (responsabilità dirigenziale), nonché, per omesso controllo, sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e all’immagine dell’ente. Tuttavia, il dirigente non risponde per il reato commesso, qualora dimostri:
  • di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il Piano per la Prevenzione della Corruzione
  • Di aver verificato la rotazione degli incarichi negli uffici esposti al rischio di corruzione
  • Di aver individuato il personale da formare sui temi della legalità e dell’etica
  • di aver vigilato sull’idoneità, il funzionamento e l'osservanza del Piano.
La sanzione disciplinare a carico del Dirigente Anticorruzione non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi.
Invece, la violazione, da parte dei dipendenti dell'amministrazione, delle misure di prevenzione previste dal Piano, e dei doveri contenuti nel Codice di comportamento, costituisce illecito disciplinare.  La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogni qual volta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice possono condurre al licenziamento per motivi disciplinari (articolo 55-quater del Testo Unico del Pubblico Impiego.

7.Monitoraggio dell’applicazione dei Piani contro la corruzione e dei Codici di Comportamento (art. 1, comma 5 decies e art. 4, comma 2 bis).  Entro il 15 dicembre di ogni anno, il Dirigente Anticorruzione dovrà pubblicare sul sito dell'amministrazione una relazione recante i risultati dell'attività svolta, trasmettendola anche all'organo di indirizzo politico. Nei casi in cui l'organo di indirizzo politico lo richieda o qualora il dirigente responsabile lo ritenga opportuno, quest'ultimo riferisce sulla propria attività. Le pubbliche amministrazioni dovranno anche verificare annualmente lo stato di applicazione dei Codici di Comportamento, anche organizzando attività di formazione del personale.

8.Tutela dei dipendenti che segnalano illeciti (art.5). Il disegno di legge introduce nel Testo Unico del Pubblico Impiego l’art. 45 bis, che tratta la tutela del whistleblowing. L’articolo prevede che il pubblico dipendente che denuncia all'Autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, oppure riferisce al proprio superiore gerarchico condotte casi di condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, al di fuori dei casi di calunnia o diffamazione.
L'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, a meno che la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato e la denuncia è sottratta all'accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990..
 L’interessato o le organizzazioni sindacali possono segnalare al Dipartimento della Funzione Pubblica l'adozione di eventuali misure discriminatorie

9.Criticità. In sintesi, mi pare che il disegno di legge delinei un sistema si gestione del rischio di corruzione ed illegalità abbastanza completo e coerente: sono previste specifiche responsabilità, fra loro distinte (Civit, Dipartimento della FP, Governo, Dirigenti per la Prevenzione della Corruzione, Organi Politici delle amministrazioni pubbliche, OIV) che, a livello centrale e locale, sono chiamate a definire, adottare, far applicare, monitorare e migliorare nel tempo le risorse umane e organizzative (Piano Nazionale Per la Prevenzione della Corruzione, Codice di Comportamento, Piani Anticorruzione delle singole amministrazioni, attività di formazione e informazione del personale, norme a tutela del whistleblowing, flussi informativi) finalizzate alla promozione della trasparenza e alla prevenzione dell’illegalità. Il sistema è ben costruito … sempre che non sia modificato dal Senato (cui il ddl è stato inviato, per essere approvato in seconda lettura) e che non resti solo sulla carta!
Tuttavia, mi pare doveroso sottolineare, in chiusura, alcune delle criticità che, mi sembra, indeboliscano l’efficacia della proposta di legge.   

In primo luogo, bisogna rilevare come in più punti del disegno di legge si sottolinei che le attività di elaborazione di analisi del rischio di corruzione, di definizione dei Piani e di formazione dei dipendenti dovranno essere attuate da soggetti interni alla Pubblica Amministrazione (cioè senza il ricorso alla consulenza di professionisti o società private) e senza ulteriori oneri per gli enti pubblici. Quindi, se da un lato il disegno di legge sembra voler riprodurre nel settore pubblico il modello di responsabilità e di prevenzione imposto al settore privato dal d.lgs. 231/2001; dall’altro sembra voler escludere il ricorso a quelle professionalità e a quei saperi inerenti la gestione del rischio di reato che, nell’ultimo decennio, hanno permesso di diffondere nel settore privato i modelli organizzativi e di gestione previsti dal Modello 231. Certamente, il ricorso ai privati avrebbe un costo, ma non ci si può illudere di poter implementare e mantenere a costo zero un sistema di gestione del rischio efficace su tutto il territorio nazionale: bisogna destinare a tale progetto le risorse finanziarie adeguate, anche perché i costi (per quanto ingenti) sarebbero giustificati dai benefici (in termini di efficienza, trasparenza, immagine, investimenti, migliore uso del denaro pubblico, ecc…) derivanti dalla prevenzione dell’illegalità nel settore pubblico.

In secondo luogo, mi sembra che il principale punto debole del sistema per la gestione del rischio di reato, proposto dal disegno di legge, risieda nella concentrazione di responsabilità in un solo soggetto interno alle amministrazioni: il Dirigente per la Prevenzione della Corruzione.  Il dirigente deve definire il Piano per la Prevenzione della Corruzione, curarne l’applicazione e l’aggiornamento e risponde in caso di commissione di un reato per responsabilità organizzativa. Si tratta di un monopolio. Un “monopolio” di responsabilità. I monopoli sono sempre pericolosi, perché rendono meno trasparente l’attività dei soggetti che li detengono. Il Dirigente anticorruzione paga (e paga per tutti), ma agisce da solo. Il d.lgs. 231/2001, invece, prevede che il soggetto sanzionato (l’azienda) sia una persona giuridica differente dalle persone fisiche (i vertici aziendali) che adottano il modello, che, a loro volta (a parte alcune eccezioni) sono distinti dall’Organismo di Vigilanza, che può essere anche formato da soggetti estranei all’azienda. Il disegno di legge, infine, non impone che il Dirigente Anticorruzione si autonomo rispetto all’amministrazione e che non possa ricoprire funzioni in processi a rischio di reato. Soprattutto, nulla garantisce che il dirigente sia autonomo rispetto alla componente politica, che si sta rivelando essere  la principale fonte di illegalità nelle amministrazioni pubbliche.

In sintesi, il disegno di legge agisce su quelle fonti di rischio di corruzione che dipendono da fattori etico - culturali e da scarsa trasparenza e controllo dei procedimenti pubblici; e che possono far emergere condotte a rischio riconducibili ai dipendenti pubblici. Mentre non tocca (ed ignora pericolosamente) le fonti di rischio derivanti dalla relazione fra componente politica e componente amministrativa e sulle fonti di rischio riconducibili all’operato e alle scelte della sola componente politica. Non si capisce la ragione di questa scelta, o meglio, le ragioni di questa scelta non dipendono dall’impossibilità, in via teorica, di estendere la gestione del rischio illegalità alla componente politica delle amministrazioni pubbliche. Ciò sarebbe possibile ed auspicabile e non significherebbe vincolare i Partiti, ma i soggetti che ricoprono cariche pubbliche di tipo elettivo negli enti pubblici e che non hanno solo il compito di difendere lobby, programmi e interessi più o meno leciti; ma anche il compito di amministrare e di assicurare che la pubblica amministrazione funzioni nell'interesse dei cittadini.


Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)
http://it.linkedin.com/in/andreaferrarini
cell. 3472728727 - andreaferrarini@inwind.it


martedì 12 giugno 2012

Notizie dal mondo della responsabilità penale e sociale d'impresa ...


Mondo Legale: news su sentenze e novità legislative inerenti il d.lgs. 231/2001 e la responsaiblità penale d'impresa
Stretta sulla responsabilità amministrativa degli enti. La confisca dei beni può colpire anche i beni del rappresentante legale dell’azienda finita sotto processo ai sensi del d.lgs. 231/2001. A questa conclusione  giunta la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 20976 del 31 maggio 2012: Insomma manager e impresa sono concorrenti nel reato e i beni possono essere sottratti a entrambi.

Etica e Sostenibilità: news sull'etica d'mpresa e la responsabilità sociale:
Un recente studio del Reputation Institute ha rivelato che nella scelta finale d’acquisto da parte dei consumatori il prodotto conta solo per il 40%: il rimanente 60% è determinato dalla positiva percezione di fattori quali l’etica d’impresa, la sostenibilità, la trasparenza, la capacità di raggiungere e mantenere risultati nel lungo termine.

Ultimi aggiornamenti sul rating di legalità, per l'acceso al credito delle imprese

venerdì 25 maggio 2012

Rating di legalità per l’accesso al credito delle imprese … facciamo il punto …

Negli ultimi mesi l’Italia ha cominciato a discutere e a legiferare in materia di “legalità delle imprese”. Dichiarazioni e leggi (ben due nel giro di 5 mesi) si sono succedute, per mettere a fuoco una proposta avanzata da Antonello Montante (vicepresidente di Confindustria) il 28 gennaio 2012 dalle pagine dell’Unità: individuare una white-list di aziende virtuose (che sperimentano e applicano modelli aziendali improntati a solidi principi etici), alle quali riservare una corsia preferenziale per l’accesso al credito e ai finanziamenti pubblici.
Considerando l’importanza che questa proposta (per le ricadute che può avere sull’accesso al credito delle imprese in un periodo di crisi), proverò a fare il punto sull’argomento rating di legalità.


1. La situazione italiana: le leggi e “il tempo della crisi”.

Viviamo in un periodo di crisi: lo sanno tutti. Se ne parla ogni giorno di più … anch’io me ne accorgo: mi occupo di consulenza alle aziende, per la definizione e l’adozione di modelli di prevenzione dei reati ex. D.lgs 231/2001 (Modelli 231) per le piccole e medie imprese. Ed è sempre più difficile, per me, trovare aziende in grado di investire in tali sistemi di gestione del rischio di reato. Proprio a causa della crisi economica.
Ma … non tutte le aziende sono in crisi: è ormai assodato che le mafie (soprattutto in regioni come la Lombardia) riciclano i proventi delle loro attività illecite in attività economiche, in vari settori: edilizia, costruzioni, commercio, ecc … E tali attività, anche in tempo di crisi, non sono in crisi, grazie al grande apporto di capitali “sporchi”, che vi vengono immessi, per essere “ripuliti”.
Si tratta di una situazione un po’ paradossale: una situazione in cui la legalità non paga e in cui sembrerebbe che, invece, che l’illegalità sia una risorsa. Anche l’impianto normativo non è di aiuto: il d.lgs. 231/2001, che definisce la responsabilità penale delle imprese, individua nei modelli organizzativi e di gestione (Modelli 231) lo strumento per promuovere una cultura di impresa eticamente e socialmente responsabile … peccato che le aziende oneste non abbiano i soldi per pagarselo, un Modello 231. Mentre per le aziende che vengono a patti con le mafie le sanzioni del d.lgs. 231/2001 rappresentano un “rischio d’impresa” … un rischio che, magari,può essere gestito dotandosi di un Modelli 231.
Col risultato che, in tempo di crisi, la legge sembra premiare i disonesti …


2. L’accesso al credito in Italia: Basilea e “il tempo di crisi”

Quanti sono gli Accordi di Basilea? Credo tre … ho un po’perso il conto. Ma ho l’impressione che tutta una serie di problemi per le imprese siano nati con Basilea 2 e non possano che peggiorare strada facendo.
Gli Accordi di Basilea, pensati per dare affidabilità e stabilità al sistema bancario, hanno avuto, come tutte le medicine, un effetto collaterale: hanno reso più difficile l’accesso al credito da parte delle imprese.
Il “cuore” del problema è rappresentato dal rating: prima di concedere un prestito, le banche devono valutare il rischio di credito del debitore, vale a dire la capacità dell’impresa, che chiede un prestito, di ripagare il proprio debito in futuro. Se l’azienda ha un rating elevato (la famosa AAA) il finanziamento costa meno. Se il rating è basso il finanziamento costa di più. Le classi di rating vanno da AAA a D, passando per una serie di classi intermedie (per esempio A o BBB o CC).
Il rating di una azienda si abbassa notevolmente, nel caso in cui l’azienda risulti essere “sensibile ad avverse condizioni economiche o a congiunture economiche sfavorevoli”. Ora, in tempo di crisi, in una crisi profonda come quella che stiamo vivendo, quali aziende non sono “sensibili” alla congiuntura economica sfavorevole? Certamente pochissime. E così, sempre più aziende vedono abbassarsi il proprio rating e devono pagare interessi sempre più alti per ottenere dei prestiti dalle banche,oppure si vedono negato del tutto il prestito.

 3. La proposta di Montante.

Nel quadro desolante delineato in precedenza, (cioè in una Italia in cui le imprese oneste hanno meno disponibilità economica delle imprese colluse con le mafie e si vedono, per giunta, negare l’accesso al credito), il 28 gennaio 2012 Antonello Montante ha lanciato la sua proposta: cambiare le regole del gioco, considerare la legalità come indicatore positivo del rischio di credito. Assegnare un rating più alto alle aziende “che investono e vivono nei mercati grazie a processi di legalità e a codici anti-corruzione”, facilitando il loro accesso al credito bancario.
La proposta, recepita dall’Associazione Bancaria Italiana e dal Parlamento è confluita nella legge 27/2012


4. La legge 27/2012 e l’istituzione del rating di legalità per le imprese

La Legge 27/2012 (la legge di conversione del Decreto Liberalizzazioni), all’articolo 5-ter,ha attribuito all'Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) il compito di segnalare al Parlamento le modifiche normative necessarie “al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali”, e di procedere, “in raccordo con i Ministeri della giustizia e dell'interno, alla elaborazione di un rating di legalita' per le imprese operanti nel territorio nazionale;”. Il medesimo articolo stabiliva che del rating attribuito si dovesse tenere conto in sede di concessione di finanziamenti pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni, nonche' in sede di accesso al credito bancario.
L’articolo 5-ter della L. 27/2012, se da un lato accoglieva la proposta di Montante, dall’altro sollevava un problema: leggendolo, sembrava di capire che all’ Antitrust fosse stato assegnato il compito di assegnare un rating di legalità a tutte le imprese italiane … una specie di fotografia del livello di legalità dell’intero sistema economico nazionale. Ma su quali basi poteva essere realizzata questa valutazione globale? E con quali tempistiche? Con queste premesse, il rating di legalità sembrava destinato a restare lettera morta …


5. Le modifiche apportate dalla legge 62/2012

I dubbi sono stati (in parte) chiariti dalla legge 62/2012, che, nata per convertire in il Decreto Legge sulle commissioni bancarie, è stata poi estesa ad altri ambiti, sempre inerenti l’attività degli istituti di credito.


(Mi si permetta un inciso: una volta erano di moda i Testi Unici … adesso vanno di moda le “leggi minestrone”: saranno anche cambiati i tempi, ma non si possono emettere norme che parlano di mille cose diverse – introducendo modifiche in tutti gli ambiti possibili e immaginabili – e poi pretendere che il cittadino conosca la legge …).

Così il rating di legalità, introdotto da una legge sulle liberalizzazioni (il nesso non è chiaro), è stato modificato da una legge sulle banche (e in questo caso il nesso è  più chiaro).
La Legge 62/2012 stabilisce che solo le aziende con un fatturato di almeno 2 milioni di Euro (riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza ) potranno richiedere il rating di legalità all’Antitrust e che, al fine dell’attribuzione del rating, potranno essere chieste informazioni a tutte le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, la legge ribadisce che del rating attribuito all’azienda si dovrà tener conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e in sede di accesso al credito bancario, aggiungendo che “gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d'Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”
La legge 62/2012 è stata pubblicata in gazzetta ufficiale il 21 maggio 2012. Il rating di legalità, però, non sarà immediatamente in vigore. Infatti, entro 90 giorni l’Antitrust dovrà definire i criteri e le modalità per il calcolo del rating e Il Ministero dell’ Economia e delle Finanze dovrà emettere un decreto, definendo le modalità «agevolate» di finanziamento pubblico e accesso al credito, riservate alle aziende che dispongono di un rating di legalità


5. Rating di legalità: priorità e criteri di calcolo … l’opinione del ministro …

Dunque, è stato chiarito che il rating di legalità sarà uno strumento volontario, di cui le aziende potranno servirsi, per agevolarsi nei rapporti con le banche e le pubbliche amministrazioni.
E’ quindi di primario interesse, per le impresa, sapere quali saranno i criteri che, in futuro, l’ Antitrust utilizzerà per definire loro il rating di legalità. Non ci sono ancora, purtroppo, indicazioni certe in merito
Tuttavia, il Ministro della Giustizia Paola Severino, già nel mese di marzo, aveva espresso la propria opinione sul  rating di legalità, definendolo “una proposta estremamente seria che riguarda non soltanto le imprese che rifiutano di pagare il loro terribile tributo alla mafia, ma anche le imprese che si dotano di modelli di organizzazione idonei a prevenire il reato”, vale a dire le imprese che si sono dotate di Modelli 231 finalizzati alla prevenzione dei reati di criminalità organizzata.
Se tale orientamento fosse confermato dall’ Antitrust, molto probabilmente, quindi, in futuro le aziende che si doteranno di Modelli 231 potranno ottenere un rating di legalità più alto ed accedere più facilmente a finanziamenti pubblici e al credito bancario.

Stiamo a vedere … vi terrò informati


Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)
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cell. 3472728727 - andreaferrarini@inwind.it


  
  

mercoledì 2 maggio 2012

E’ UTILE ESTENDERE IL D.LGS 231/2001 AI PARTITI POLITICI? Qualche riflessione …


Hanno ricominciato a litigare come due vecchi amanti … i Cittadini e la Politica. E come vecchi amanti, ritornano spesso sullo stesso argomento: il finanziamento pubblico dei Partiti.  Qualcuno chiede di riformarlo, qualcun altro di abolirlo.
E in questa stagione di governi tecnici e di crisi finanziaria, di riforme, di valori (e di vite) che annegano nella recessione, si sta facendo strada, ancora una volta, l’idea che della Politica si possa fare a meno. Che i Partiti se la cavino da soli, dicono in molti, che si facciano finanziare dalle Lobby che sostengono, o dai simpatizzanti con il 5 per mille. E se non ce la fanno, che chiudano i battenti: tanto non è la politica che salva il Paese. Il Paese lo salvano i Tecnici al Governo. O i Sindacati e i Movimenti che occupano le piazze. A seconda dei gusti di ognuno.

Non mi sembra una gran bella idea … credo anch’io che la Politica abbia “perso la bussola” della consapevolezza e dei valori. Che dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Che qualcosa vada cambiato. Ma non farei mai rottamare un’automobile che funziona male, prima di averne acquistata una nuova … a meno che preferisca restare a piedi!
Fino ad oggi, nessuno è ancora riuscito ad inventarsi una Democrazia senza Partiti: quando il confronto politico viene meno e i problemi si risolvono invadendo le Piazze, si può fare al massimo una Rivoluzione che, purtroppo, è spesso l’anticamera di una Dittatura …
I Partiti Politici sono uno strumento imperfetto (come spesso lo sono le cose umane), per garantire la pluralità delle idee. E in questo modo, sono un perfetto antidoto ai Totalitarismo (che è sempre la dittatura di una idea, di un ideale, di un interesse o di una classe sociale).
Credo sia giusto, direi anche etico, che i Cittadini di uno Stato finanzino e tutelino il proprio imperfetto strumento per garantirsi dal male peggiore di una dittatura: i Partiti non devono scomparire, devono solo funzionare meglio. Devono responsabilizzarsi, imparare a gestire correttamente i soldi pubblici di cui sono beneficiari, al pari di qualunque altra impresa privata, associazione o ente pubblico.

In quest’ottica, potrebbe essere utile considerare l’ipotesi di estendere la responsabilità penale degli Enti, sancita dal d.lgs 231/2001, alle organizzazioni politiche.
Il Decreto Legislativo 231/2001 stabilisce che le aziende e le associazioni (anche prive di personalità giuridica) rispondano per i reati compiuti dai loro rappresentanti e dipendenti nel loro interesse, subendo sanzioni pecuniarie e, nei casi più gravo, anche la sospensione della propria attività. Per non essere ritenute responsabili, ed essere sanzionate, aziende e associazioni devono dotarsi di modelli organizzativi e di controllo per la prevenzione dei reati, e dimostrare che chi ha commesso il reato ha volutamente raggirato il modello, agendo in contrasto con le procedure di legalità e la cultura dell’Ente.
Partiti Politici ed Enti Pubblici non economici sono stati esclusi dal campo di applicazione del d.lgs 231/2001 in quanto enti di rilievo costituzionale. Una scelta, a prima vista, certamente sensata: non si può dare a un Tribunale la possibilità di sospendere l’attività di un Partito o di un Ente Pubblico. Sarebbe una cura peggiore del male.
Purtroppo, l’esclusione degli Enti di rilievo costituzionale dal d.lgs 231/2001 non ha consentito la diffusione, negli Enti Pubblici e nei Partiti Politici, dei modelli organizzativi e di controllo e dei sistemi di prevenzione dei reati, che invece si sono diffusi nelle imprese private.
Attualmente, la Camera sta valutando un disegno di legge anticorruzione, che estenderebbe agli Enti Pubblici l’obbligo di dotarsi di Piani di Prevenzione dei reati, sul modello di quelli previsti proprio dal Il decreto legislativo 231/2001.
Allo stesso modo, si potrebbe pensare di estendere il d.lgs 231/2001 anche alle organizzazioni politiche, magari prevedendo che i Partiti rispondano dei reati commessi dai loro esponenti e iscritti, a meno che non di dotino di modelli organizzativi e di controllo finalizzati a prevenire le attività illecite.
Questa estensione di responsabilità potrebbe legarsi ad una possibile riforma del sistema dei i rimborsi elettorali, per esempio prevedendo la sospensione dei finanziamenti pubblici, nel caso in cui siano compiuti reati nell’interesse di un Partito.
In tutti i casi, l’estensione del d.lgs 231/2001 alle organizzazioni politiche non potrà mai prevedere la possibilità di sanzioni interdittive: al di fuori dei casi già consentiti dalla legge, e in tempo di pace, nessuno può imporre ad un Partito Politico di sospendere la propria attività. Questo a garanzia, ancora una volta, della nostra buona, vecchia e imperfetta Democrazia…



Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)
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mercoledì 7 marzo 2012

Gestire l'incertezza, per costruire il futuro

1.La crisi e l'incertezza

Più propongo Modelli 231 alle imprese, più mi convinco che non è la crisi il vero motivo per cui molte aziende non si dotano di un modello di prevenzione dei reati penali e in generale non investono in consulenze che potrebbero dare un valore aggiunto al loro business. Il vero motivo è l'incertezza.
Crisi e incertezza non sono la stessa cosa: una situazione di crisi fa venir meno l'ambiente e le risorse su cui le imprese (e le persone) si basano per svolgere la propria attività. Si è in crisi, in poche parole, quando ci si accorge che qualcosa che fino a ieri era disponibile, oggi non c'è più.
L'incertezza è qualcosa di diverso: in una situazione di incertezza non è più chiaro come andranno le cose domani. L'incertezza è paura del futuro, che può condurre le aziende a non darsi degli obiettivi, a non reagire.

2.L'incertezza che uccide il futuro.

Dalla crisi si potrebbe uscire in futuro ... invece l'incertezza non sembra avere vie d'uscita, perché si situa nel futuro. A dire il vero, questo non dovrebbe essere un problema: le persone possono conoscere il passato e il presente, ma non possono controllare il loro domani. Perché il futuro non esiste in quanto tale: è sempre immaginazione, proiezione, progetto, speranza. Le organizzazioni dovrebbero definire i propri obiettivi  per "addomesticare" il futuro, per decidere come vorrebbero che fosse. Al giorno d'oggi, invece, l'incertezza per il futuro uccide gli obiettivi. Uccide la speranza, gli investimenti, l'innovazione. Favorisce politiche di stabilità ( = difesa del presente) a discapito delle politiche di crescita economica (=investimento sul futuro).

3. Come uscirne?
Indubbiamente, l'incertezza non può essere negata e cancellata: è parte, ormai, del modo di pensare e di essere delle persone e delle organizzazioni. Allora, una soluzione potrebbe essere imparare a gestire l'incertezza. Definirla meglio, circoscriverla (come si fa con gli incendi)per ridurre la sua carica distruttiva sul futuro. Ma come?  Alcuni spunti di riflessione interessanti sono forniti, per esempio, dalla norma ISO 31000:2010 "Principi e linee guida per il Risk Management," che definisce il rischio come "l'effetto dell'incertezza sugli obiettivi". L'effetto che l'incertezza ha sugli obiettivi consiste in uno scostamento (positivo o negativo) da un risultato atteso. E l' incertezza è, invece "lo stato, anche parziale di assenza di informazioni relative alla comprensione o alla conoscenza di un evento e delle sue conseguenze". 
Chiaramente l'incertezza, nella definizione della ISO 31000, fa molto meno paura: non è più "paura del futuro", ma semplicemente "ignoranza degli eventi". La ISO 31000 "disinnesca" la carica esplosiva dell' incertezza, nella misura in cui sposta l'attenzione sulla nozione (altrettanto paurosa) di rischio. Ma il rischio è qualcosa di gestibile.

4. Il rischio vive fra presente e futuro. L'incertezza esiste solo nel presente.
Alcuni componenti del rischio si situano nel futuro: gli obiettivi, i risultati attesi, gli eventi e le loro conseguenze sono tutte cose che potrebbero accadere domani, ma che non sono, di per sé, un rischio. L'incertezza, invece, esiste solo nel presente, come stato di non conoscenza degli eventi che potrebbero influenzare gli obiettivi. Ed anche l'incertezza, di per sé, non è un rischio: sono gli effetti dell'incertezza sugli obiettivi ad essere un rischio.
L'incertezza, intesa come situazione di non-conoscenza, può essere superata e gestita nel presente: la norma ISO 31000 fornisce una serie di principi, strutture, processi, per tenere sotto controllo l'incertezza, individuando gli eventi che potrebbero influenzare gli obiettivi, e per definire gli obiettivi anche considerando gli eventi che potrebbero influenzarli.
L'incertezza non potrà mai essere completamente cancellata dalla vita delle organizzazioni, ma può essere gestita, riducendo l'impatto che eventi futuri potrebbero avere sull'azienda o, anche, imparando a definire diversamente gli obiettivi, in modo tale che non siano preda degli eventi futuri.

5. Concludendo - La consulenza organizzativa ai tempi dell'incertezza.
La nuova prospettiva concettuale, proposta dalla ISO 31000, ci permette di ridefinire gli obiettivi e il ruolo della consulenza organizzativa ai tempi dell'incertezza.
Oggi le aziende si sono accorte che l'incertezza esiste e ne hanno paura. E il consulente aziendale non può più essere un fornitore di certezza. Deve essere, piuttosto, un gestore dell'incertezza. Dovrebbe dire alle aziende "accettate l'incertezza e usatela come leva per costruire il futuro".
L'incertezza non gestita genera rischi. Invece, una corretta gestione dell'incertezza migliora la conoscenza degli eventi, aiuta l'azienda a definire più realisticamente gli obiettivi e i risultati futuri, permette di controllare meglio le risorse (umane, finanziarie, tecnologiche, ecc...) e le responsabilità coinvolte nei processi aziendali.

Questo ragionamento vale anche per la consulenza per i modelli organizzativi ex d.lgs. 231/2001: la maggior parte delle aziende non ha mai commesso illeciti penali nel proprio interesse. Il problema è che le aziende non sanno perché non hanno mai commesso reati: dotarsi di un modello significa, per una organizzazione, diventare consapevole dei propri valori etici e promuovere la propria immagine di azienda socialmente responsabile.
Modelli organizzativi e di controllo dell' incertezza potrebbero condurre, in futuro, non solo alla prevenzione del rischio da reato,ma anche alla promozione della Responsabilità Sociale d'Impresa (CSR).



Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)

lunedì 13 febbraio 2012

Problemi legati alla tridimensionalità del rischio 231

In un precedente POST ho parlato del carattere tridimensionale e disorganico del rischio 231. 

Il carattere tridimensionale del rischio 231 è un problema, perché il rischio 231 appare essere molto eterogeneo e molto “vasto”: dipende dalle persone che vivono dentro e fuori le organizzazioni, con i loro comportamenti e i loro interessi; dipende dalla struttura organizzativa, con il suo sistema di controlli e poteri e le sue modalità di gestione dei processi; dipende dalle sentenze dei giudici, che sanzionano i comportamenti, riconducendoli ai reati presupposto. In che modo è possibile analizzarlo e, quindi, gestirlo? Personalmente, credo che l'approccio migliore sia quello proposto nella norma ISO 31000. Ma vorrei arrivarci per gradi, senza imporre niente a nessuno, ma spiegando attraverso quale percorso sono arrivato a questa conclusione.

Inizialmente, avevo tentato una “analisi tridimensionale” del rischio 231. In base a tale analisi, il rischio 231 sarebbe il rischio che “in certi processi/certe aree aziendali siano messi in atto dei comportamenti che causano un vantaggio all’azienda, ma ledono interessi collettivi”. Questa definizione funzionava, nella misura in cui era talmente generica e disorganica, da adattarsi a una vasta gamma di casi. Quello che non era chiaro, in tale analisi, era la relazione esistente fra le tre dimensioni del rischio 231 (comportamenti, processi e interessi) in rapporto ai fattori di rischio specifici di ciascun reato presupposto. In altre parole, non era chiaro quale fosse la dimensione principale o se tutte tre fossero altrettanto importanti. Per esempio, in relazione al rischio di infortuni sul lavoro o di reati ambientali, la dimensione principale sembrava quella dei processi (esistono processi più rischiosi per l’uomo o l’ambiente di altri), in combinazione con la dimensione dei comportamenti (intesi come scelte di non vigilare sulla salubrità e sicurezza dei processi, a vantaggio dell’azienda). Al contrario, in relazione al rischio di reati di corruzione e concussione, la dimensione degli interessi è preponderante: lì i fattori di rischio sono gli interessi personali (desiderio di potere o ricchezza) del pubblico ufficiale, gli interessi dell’azienda (a vincere, per esempio, un appalto), che conducono alla lesione di un interesse collettivo. La dimensione dei comportamenti, invece, è preponderante nel reato di corruzione (in cui esiste un accordo fra le parti), ma non in quello di concussione, in cui è il pubblico ufficiale che costringe o induce qualcuno a dare denaro o benefici. E ancora, nel caso del rischio di reati contro la personalità individuale, sono preponderanti la dimensione degli interessi (= diritti umani) e dei comportamenti. 
Quindi, l’analisi tridimensionale non serviva ad analizzare il rischio in modo omogeneo, ma obbligava ad analizzare e gestire in modo differenziato ogni singolo rischio di reato. Per questa ragione l’ho abbandonata e ho deciso di cercare una metodologia (o forse sarebbe meglio dire un paradigma teorico), in grado di individuare, analizzare, ponderare e gestire in modo “omogeneo” il rischio 231


Il rischio 231 è difficilmente percepito in quanto rischio dalle imprese proprio a causa del suo carattere tridimensionale, diffuso, disorganico, variabile nel tempo. In pratica, le aziende non “vedono” il rischio 231 e quindi non sentono il bisogno di dotarsi di modelli per gestirlo. Una metodologia per la gestione del rischio 231 deve, dal mio punto di vista, rendere tale rischio visibile alle aziende, diminuendone l’apparente complessità. Inoltre, tale metodologia deve indicare chiaramente in che modo il rischio 231 è interno alle aziende ed è connesso ai loro processi.

                                                                                                                [CONTINUA]


Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)

mercoledì 8 febbraio 2012

Commissione Patroni Griffi e modelli di gestione del rischio corruzione negli enti pubblici e nei partiti

Recentemente, su REATI SOCIETARI.IT è stato pubblicato il testo delle proposte avanzate dalla Commissione Patroni Griffi per la prevenzione della corruzione nella Pubblica Amministrazione

Pur non concordando, in tutto, con le proposte avanzate, lo trovo molto interessante, perchè trovo che indichi quanto, in seno alle pubbliche amministrazioni, stia diventando forte il bisogno di agire in modo sistematico, anche a livello organizzativo, per prevenire la corruzione.

Gli enti pubblici non economici e i partiti politici erano stati esclusi dal campo di applicazione del d.lgs 231/2001, per una questione pratica: il decreto prevede sanzioni pecuniarie a carico del patrimonio degli enti e, nei casi gravi, la sospensione dell'attività. Ma non è possibile (o sarebbe un rimedio peggiore del male), aggredire il demanio pubblico o "sospendere" le attività di una pubblica amministrazione o di un partito, a seguito di casi di corruzione.
A causa di questa esclusione, non sono mai stati adottati, da enti pubblici e partiti politici, i modelli di gestione e controllo previsti dal decreto 231, cioè gli strumenti di prevenzione e gestione del rischio di reato.

Adesso, però, si sente l'esigenza di applicare modelli, procedure, analisi del rischio di reato, anche agli enti pubblici e ai partiti, "sganciandoli" dalla 231 ed, eventualmente, integrandoli con altri approcci, più adeguati alle organizzazioni pubbliche e politiche.

Mi chiedo se non ci sia, potenzialmente, un nuovo panorama di intervento che si sta aprendo ... e che forse varrebbe la pena di considerare: la consulenza organizzativa agli enti pubblici, finalizzata alla gestione del rischio di corruzione. "gestione della corruzione" che comincia con una attenta analisi dell'organizzazione, dei monopoli di potere presenti al suo interno, con l'analisi del livello di discrezionalità nelle scelte associate ai procedimenti, con la determinazione del grado di trasparenza e accountability dell'Ente Pubblico.

venerdì 27 gennaio 2012

Che rischio è il rischio 231?

Il decreto 231/2001, introducendo nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa da reato, ha anche introdotto una nuova tipologia di rischio per le aziende. I modelli 231 possono mitigare o annullare completamente questo rischio, nella misura in cui, per volontà del legislatore, tali modelli, correttamente applicati e aggiornati, sollevano gli Enti dalla suddetta responsabilità amministrativa (valore esimente dei modelli). Ma di che natura è il rischio 231? In altre parole, quando, per costruire i modelli 231, si attuano risk assessments, esattamente, cosa si sta valutando? Di cosa, in fin dei conti, si sta parlando? Rispondere non è poi così facile.

E’ un rischio che dipende dalla legge
Si tratta, innanzitutto di un rischio che potremmo definire legale, nel senso che, a causa del decreto, un Ente può essere chiamato in giudizio per responsabilità amministrativa in relazione a un ristretto numero di reati. Affinché questo accada, è necessario che un Pubblico Ministero formuli una ipotesi di reato e chieda un rinvio a giudizio. Se non si conoscono i reati-presupposto della responsabilità amministrativa,  i possibili comportamenti che possono integrare tali reati, gli orientamenti dei tribunali, non è possibile costruire un modello 231 efficace. Quindi, la gestione del rischio 231 richiede competenze legali.

E’ un rischio che dipende dall'organizzazione.
Il valore esimente di modelli dimostra, però, che il rischio 231  è anche strettamente correlato alla necessità, per l’Ente, di attuare una corretta governance sugli esiti dei processi aziendali, sulle modalità di comportamento delle risorse umane, sui propri valori … dunque il rischio 231 non si concretizza solo (e una volta ogni tanto) nelle aule giudiziarie, ma vive quotidianamente dentro  la struttura dell’ Ente. Per gestirlo efficacemente, sono necessarie competenze nel campo della analisi organizzativa.

E’ un rischio che dipende dal contesto sociale e culturale
Negli ultimi 10 anni sempre più reati sono confluiti nel  d.lgs 231/2001, anche per l’emergere, nella società italiana,di sensibilità nuove volte a promuovere la tutela dei diritti/interessi collettivi e la responsabilità sociale delle imprese. Quindi, il rischio 231 ha le sue radici anche fuori dall’Ente, nel contesto sociale e culturale e muta con esso: la corretta gestione del rischio 231 di una azienda passa anche attraverso l’individuazione e la tutela degli stakeholders che si interfacciano con essa.

IL RISCHIO 231 E’ UN RISCHIO TRIDIMENSIONALE
In conclusione, il rischio 231 sembra essere una entità complessa, che si sviluppa attraverso tre dimensioni: la dimensione legale dei comportamenti illeciti, la dimensione organizzativa del controllo sui processi e la dimensione sociale degli interessi collettivi.

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Scritto da Andrea Ferrarini (Consulente Modelli Organizzativi ex d.lgs 231/2001)